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Captive State – Recensione del nuovo film di Rupert Wyatt

Partendo dall’antesignano per eccellenza, Incontri Ravvicinati del Terzo Tipo (1977), fino al più recente e sorprendente Arrival (2016), l’opera di Rupert Wyatt sgomita per trovare un suo posticino in mezzo a dei titoli ben più blasonati, cercando di ritagliarsi un posto senza essere dimenticato facilmente come spesso capita a molti film di questo tipo. Captive State assesta una serie di suggestioni e di idee per comprendere e caratterizzare ancora di più l’ambientazione distopica della pellicola, che la rendono molto interessante. Sono passati nove anni dall’invasione aliena e ogni apparecchiatura digitale è obsoleta, ogni città non può comunicare con l’esterno, e vige una legge marziale ristrettissima. Chicago, metropoli affascinante che ha fatto da sfondo a molti film di gangster storici o per ambientazioni più audaci e fantasiose – come la Gotham City de Il Cavaliere Oscuro – qui mostra la sua parte più fatiscente e crepuscolare per fare da sfondo a una storia che sulla carta rischierebbe di essere canonica, ma che si sforza per ragionare su contorni più intimi e poco convenzionali.

Una Chicago distopica

La produzione ha portato questo 2025 girando proprio in alcune location reali di Chicago. L’atmosfera che si respira è fra le cose migliori della pellicola: il futuro distopico e senza speranza, il degrado dei quartieri limitrofi, la green zone costruita dagli alieni stessi al centro della città e l’osservanza delle regole imposte dal controllo superiore. Come per citare vaghi echi che richiamano la speranza e la “scintilla” della ribellione nei film di Lucas, qui assistiamo alla presentazione di una cellula di dissidenti che operano nella più totale oscurità attraverso mezzi di comunicazione criptici per non essere individuati. La parte più interessante e riuscita è sicuramente l’innesco del piano attuato dalla resistenza, come opera il regime sulla popolazione e i collaborazionisti del regime stesso (ex poliziotti che hanno scelto di stare dalla parte degli invasori).

captive state

Gli intrecci sono molteplici e catturano l’attenzione trasportandoci per tutto il percorso “tortuoso” del film. In ogni caso, lo svolgimento di tale piano e la relativa catarsi rivela una goffaggine che trova il suo massimo esempio nel terzo atto e la sua relativa conclusione, con il classico twist che dovrebbe catturare, stupire, ma non ci riesce fino in fondo. Il film viene trainato dall’aria magnetica e imperturbabile di John Goodman, che dopo 10 Cloverfield Lane si trova nuovamente in un futuro distopico controllato da civiltà aliene. Il suo Poliziotto William Mulligan, stoico professionista, si trova a muoversi e a compiere azioni forzando su due realtà ideologiche che lo costringono all’angolo: collaborare come i suoi colleghi per l’ordine superiore degli invasori e proteggere contemporaneamente le persone a lui care.

Il dettaglio più dell’insieme

Nel cast spiccano i due fratelli Ashton Sanders e Jonathan Majors, che ereditano questa attenzione da parte delle major di cavalcare l’onda dei protagonisti di colore, che già in Attack The Block (2011) ha fatto spiccare John Boyega e che continua, tutt’ora, ad operare nell’ambito di alieni e ribellione. Rupert Wyatt non è Denis Villeneuve e ne è consapevole, a differenza di quest’ultimo concentra l’attenzione nelle microstorie intorno a questo futuro a discapito del quadro stilistico. Ciononostante ha comunque un suo stile visivo ben impostato, nulla di eclatante, va detto, ma comunque la fotografia restituisce molto bene questo clima tetro che aleggia su tutta la città. L’azione è ridotta al minimo e quel poco che c’è sembra una sorta di contentino per il pubblico generalista dei film sugli alieni. Sicuramente, anche in sottrazione, si poteva fare un lavoro più accattivante sulle creature e sulla nave madre. Quest’ultima è il solito alveare fluttuante senza troppi particolari, gli alieni sono una rivisitazione apparentemente discutibile delle creature viste in Attack The Block, mentre i “cacciatori” rimandano inevitabilmente a dei Predator alquanto stravaganti (anche se la mano dietro a queste creature in particolare è un certo Nicotero): anche in questo caso nulla che faccia gridare al miracolo. Piccola menzione per l’ottimo sound design sugli alieni: i rumori inquietanti che le creature emettono sono molto suggestivi.

Captive State

7

I presupposti per assistere a qualcosa di brillante nel genere c'erano, il film tenta di delineare una sua traccia, un suo approccio ben specifico, intimo, scandendo dei tempi e delle atmosfere orwelliane angoscianti che trovano così il suo massimo sforzo. Purtroppo Captive State punta troppo sulla conclusione finale ad effetto e tralascia lungo il percorso alcuni aspetti accattivanti che avrebbero contribuito a portare il discorso estetico su un altro livello. 

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