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Non ci sono più i videogiochi di una volta

Non ci sono più i videogiochi di una volta. Sebbene questa sia una delle frasi fatte più abusata nella storia, purtroppo dobbiamo smetterla di prenderci in giro e ammettere l’amara verità. I videogiochi di una volta, quelli belli e che ricordiamo con amore e nostalgia, sono finiti. Prima che un qualche psicologo in erba si metta ad analizzare le implicazioni della nostalgia e la visione smaliziata nella giovane età, ovviamente la mia è un’esagerazione atta a smuovere un concetto tanto facile quanto celato davanti a sfarzose copertine, scintillanti DLC e fiumi fatti d’oro e free to play.

Per recensire il fantastico Bayonetta & Vanquish 10th Anniversary Bundle (qui trovate la recensione), non ho potuto fare a meno di notare come all’epoca i videogiochi fossero diversi: non c’era la smania di dover poter far tutto, non era necessario avere un open world per divertirsi e i videogiochi potevano permettersi di concentrarsi su uno solo dei tanti aspetti che questo media comprende. Prendiamo l’esempio palese di Vanquish: trama da B-Movie, dialoghi al limite del surreale, bug grafici evidenti in alcune cutscene e una valanga di oggetti in movimento che in confronto 6 Underground di Michael Bay è un film lento. Eppure, ogni singola frase detta dal protagonista, mentre fuma una sigaretta che sembra non finire mai, carica al massimo l’adrenalina. Un’altra scena, invece, richiede al giocatore di sfasciare letteralmente il tasto quadrato per uccidere un boss che poco prima avete crivellato di colpi: riuscendo nel Quick Time Event, il protagonista inizierà a girare così velocemente su se stesso da trapassare il malvagio robot da parte a parte, dimostrandosi degno del miglior Hurricane Polymar.

I videogiochi ora devono avere tutto, altrimenti parliamo di flop: ogni gioco deve avere una componente strategica, una manageriale, deve permettere di sparare agli NPC e cambiare drasticamente la trama del gioco (e Dio ce ne scampi se i riflessi delle finestre non sono gestiti in modo dinamico). Dove sono finiti quei titoli che richiedevano dedizione per essere conclusi? Quei giochi che non costringevano a perdere ore e ore per imparare un sistema dannatamente complesso?

Max Payne era la storia di un poliziotto distrutto per la morte di moglie e figlia, non ci si chiedeva come facesse a curarsi con gli antidolorifici o a rallentare il tempo. Bayonetta sfruttava un gameplay fantastico, nato dall’esperienza sviluppata con Devil May Cry, ma non costringeva gli utenti a ore e ore di looting per trovare le armi giuste. Ogni gioco ha un genere, e questa dannata ibridazione continua di svariate tipologie di titoli sta portando alla nascita costante di giochi “lenti”, titoli che richiedono fin troppe ore in-game anche solo per l’azione più semplice.

Devil May Cry 3 Special Edition

Ovviamente non sto qui a fare il “boomer”, sono felicissimo di avere giochi come Red Dead Redemption 2, GTA V e il nuovo God of War: abbiamo assistito a nascite come lo Spider-Man di Insomniac, Days Gone e tutt’ora esperimenti fantastici popolano le console, basti pensare a Dreams. Però, ogni tanto, sarebbe bello rituffarsi in quella tamarraggine fatta di poligoni e di cuore, quei giochi “divertenti”, che riescono a farci togliere il pensiero di una giornata di lavoro (e che non diventi un lavoro esso stesso). Ma perché non li troviamo più? Perché questo genere di videogiochi è completamente scomparso? Ecco alcune teorie.

Le spese dell’industria

Creare un videogioco tripla A è costoso: richiede uno staff ampio, tempi lunghi e sicuramente un dispendio di tecnologia non indifferente. Creare un videogioco tripla A è anche rischioso: pensate, investire economicamente grandi cifre con il rischio di un flop. Le aziende più grandi quindi devono bilanciare i rischi e il miglior modo per farlo rimane accontentare la maggioranza. Per questo molti giochi ormai sembrano cloni di cloni; generi che si contaminano a vicenda, dando vita a titoli ibridi.

Sono pro alla contaminazione, qualora venga fatta con un senso logico: vedere per esempio un Red Dead Redemption 2 che inserisce dinamiche nuove al gioco portandolo verso un realismo quasi estremo è stato decisamente appagante, così come giocare a Death Stranding e trovarmi a scoprire un sistema basato completamente sui “mi piace”. Se però andiamo a prendere Assassin’s Creed Brotherhood e il suo sistema di gestione della confraternita, troviamo un vero muro fatto di lentezza e dinamiche aliene, come quando un fantastico film action inserisce quella scena inutile e tediosa che spezza completamente il ritmo. Di giochi simili ce ne sono a dozzine, e sono sicuro che non tutte le problematiche siano da imputare al “mercato”, ma non possiamo nemmeno nasconderci dietro a un dito e dire che questo non fa parte del problema.

Il pubblico

Ovviamente le software house producono ciò che vuole il pubblico: un gioco ricercato, particolare e che va a “colpire” solo una nicchia non può di certo ricevere un contributo economico dal produttore elevato (se lo riceve). Per questo ormai esperienze assimilabili all’amato Vanquish si trovano solo nei titoli indipendenti: un mercato che si è espanso cosi tanto da differenziarsi a sua volta in base all’investimento economico. Sempre più spesso troviamo giochi indie “verticali”, incentrati su una dinamica: basti vedere Hellblade, che manca di gameplay profondo a favore di una trama dal peso sociale e un gameplay che fa quanto basta. Ora immaginatevi lo stesso trattamento applicato ad un God of War: quante vendite in meno farebbe? Questo, ahimé, è imputabile solo al pubblico, che ormai ha perso la voglia di scoprire (anche a causa di internet) e si trova sempre più a comprare solo ciò che vale “l’investimento”. Provetti economisti capaci di calcolare il costo/ora in base a quanto pagano il gioco e quanto tempo richiede per finirlo, dimenticando che la longevità spesso è data anche dalla rigiocabilità (quante volte avete finito Super Mario Bros 3?).

scalebound

Quindi va dato a Cesare quel che è di Cesare. Il nostro cesare è il pubblico, e ormai vuole solo produzioni complete, con 20 tipologie di gameplay diverse, un costo basso e dai voti stellari (se la stampa per puro caso da 7.5 a quel gioco, è da cestinare). Spero che qualcuno rientrante in questo profilo stia leggendo l’articolo, e spero che vedendo queste due righe riscopra il piacere della scoperta: acquistate un gioco di pancia, perché magari vi intriga la copertina o la sinossi, vedrete che alle brutte avrete fatto un buco nell’acqua, ma se invece coglierete il segno allora vi ritroverete ad aver giocato un’opera senza essere “spinti” dai giudizi altrui.

I fan e gli estremisti

I fan sono il male del mondo. Peggio di loro ci sono gli estremisti, piccolo spicchio di fan che diventa talmente ossessionato dalle sue affermazioni da rivelarsi intrattabile: per capire se un vostro amico rientra in uno o l’altro gruppo, vi basterà criticare il loro prodotto preferito. Purtroppo gli estremisti sono gli stessi che diventano talmente pignoli da non lasciarne sfuggire una. Se Vanquish fosse uscito oggi, ci sarebbero state critiche sulla trama, sul doppiaggio, sui dialoghi, sul gameplay e persino sulla grafica. Oggi la base di ogni dialogo può riassumersi in critiche su critiche, perché il Batman di Pattinson è magro, perché il Joker di Phoenix non è come Ledger, perché Kratos in God of War non salta. Anni fa, quando usciva Devil May Cry 3 su PlayStation 2, alla frase “ma non si può cambiare stile durante le missioni” si rispondeva con “meglio, così è più strategica la scelta”. Ora questa feature è stata aggiunta nella versione Switch.

causa Quantic Dream Detroit

Perché ormai non esiste più l’idea del designer di videogiochi: salvo qualche raro caso (Kojima, Cage, ecc) che possono ancora permettersi di dire “ho fatto questo perché l’ho scelto”, tutte le altre feature nei videogiochi vengono criticate, come se spettasse alla critica o ai fan mettere in discussione le scelte artistiche avute. I problemi ci sono, le scelte sbagliate anche, ma da qui a criticare posizioni stilistiche decise con cognizione di causa ce ne passa. Non ho mai sentito un critico lamentarsi del fatto che i Girasoli di Van Gogh siano olio su tela e non acquerello.

Il coraggio

Secondo me, comunque, tutte le motivazioni sopra citate sono aria: parliamo di teorie stese su fondamenta fatte di ipotesi, spesso alterate dai social o dal sentito dire. Non serve professarsi geni del marketing né tantomento articolare simposi sul mercato videoludico odierno. La verità è che manca il coraggio, quel famoso andare contro il rischio di impresa perché ci si crede. Ormai tutto è legato a numeri, business plan da rendere veri e tanti calcoli matematici. Sicuramente un’industria, per definirla tale, deve lasciare ai “giocatori” del settore la possibilità di guadagnare, però il guadagno non sempre viene con i rischi calcolati. Anche il gioco del Poker ha dei coin flip, possibilità al 50% che una cosa vada bene o male. I coin flip si giocano e si rischiano, non si molla la partita. Ma ora è rischioso fare un gioco “caciarone”, caotico o come amano definirlo in molti, semplice. Ormai i videogiochi devono avere difficoltà spropositate senza rendere difficile l’esperienza, devono raccontare trame articolate ma costruite intorno all’utente, devono avere un mondo dettagliato nei minimi particolari ma, allo stesso tempo, capace di mutare in base alle scelte. Forse un giorno arriveremo ad avere prodotti simili, ma per ora mi accontento di vedere la gente credere a questa utopia. Fortunatamente, esistono aziende e titoli che sanno osare, gettare il cuore oltre l’ostacolo: Cyberpunk 2077, The Last of Us Parte 2, il già citato Dreams e persino un remake come Resident Evil 3, tutti giochi che stanno nel loro recinto, che osano dove possono ma non oltrepassano i limiti previsti (dal buon senso).

Cyberpunk 2077

Non prendete tutto questo come lo sproloquio di una persona che vorrebbe i “videogiochi di una volta”: so che quelli sono impressi nella mia mente in modo indelebile come perfetti, nonostante non lo fossero. Però c’è voluto Bayonetta & Vanquish 10th Anniversary Bundle per incollarmi di nuovo alla console come non succedeva da tempo, con la voglia di completare un gioco e con il sorriso stampato sul volto. E allora forse non sono quel lunatico per strada con il cartello con su scritto “la fine del mondo è vicina”. Forse è vero che servirebbe una ventata di aria fresca fatta non solo di nuovi esperimenti, ma anche di produzioni coraggiose, capaci di dire “la trama non è un granché, ma non serve. Adorerete il gioco per altre cose”.

Simone Lelli
Amante dei videogiochi, non si fa però sfuggire cinema e serie tv, fumetti e tutto ciò che riguarda la cultura pop e nerd. Collezionista con seri problemi di spazio, videogioca da quando ha memoria, anche se ha capito di amarli su quell'isola di Shadow Moses.

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