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The Last Dance – Anteprima della docuserie Netflix su Michael Jordan

La dinastia dei Chicago Bulls torna su Netflix con due nuovi episodi (III/IV) di “The Last Dance“, docu-serie che racconta passo dopo passo la stagione 1998, quella del sesto anello della franchigia di Michael Jordan, qui rivelatosi il più tormentato di tutti. Continua il dietro le quinte di quella fantastica avventura, con flashback che ci riportano indietro nel tempo fino alle finali di conference perse contro i rocciosi rivali dei Pistons, bi-campioni NBA, battuti al terzo tentativo (1991) dopo mesi di allenamenti più intensi, trascinati dalla voglia di vincere di Jordan (cresciuto muscolarmente quell’anno) e sempre più al servizio dei compagni. Detroit era una squadra difficilissima da battere, la metteva soprattutto sul piano del contatto fisico e delle provocazioni (per limitare Jordan), ma formavano un mix perfetto di realizzatori stellari (Isaiah Thomas, Joe Dumars) e combattenti spietati sotto canestro, come quel Dennis Rodman che sarebbe tornato nel destino dei Bulls, stavolta al servizio di Mike e Scottie (Pippen).

The Last Dance

Proprio “The Worm” (“il verme”), giocatore istrionico dal carattere esuberante ma carismatico, è uno dei protagonisti dei due episodi che ci faranno entrare nel profondo dell’uomo Rodman – ricordato anche per le sue capigliature colorate, le apparizioni a Hollywood e l’amicizia con il dittatore coreano Kim – attraverso le parole del coach dei Bulls titolati, il guru Phil Jackson, di una delle sua ex fiamme, Carmen Electra, e di tanti suoi vecchi compagni di squadra.

Qualcuno, come Jordan, riusciva a capire le esigenze di una persona dall’indole ribelle (nato a Trenton, nel New Jersey) ma che dava tutto sul parquet… mentre altri un po’ meno. Con le sue “confessioni” tornano alla mente i tanti errori commessi, quei momenti difficili in cui “si sentiva perso”, bisognoso “di chiedere aiuto”. Ma era un guerriero, capace di non arrendersi mai, con o senza canotta addosso. Tornerà a parlare dei tanti episodi negativi (in campo e fuori) che ha pagato sulla propria pelle, del rapporto difficile con la madre (che da giovanissimo lo cacciò di casa) e dell’amore per il basket:

Mi ha salvato. Ero un ragazzo umile. Non so come ho fatto a non entrare mai nel giro della droga.

Dice commosso, invece riguardo la sua nomea da duro racconta:

Me la sono costruita a Detroit. Al college ero diverso. Ho capito che per sfondare avrei dovuto soprattutto difendere e raccogliere rimbalzi.

the last dance

Poi entra nel dettaglio dei tre anni vissuti all’ombra di Jordan e Pippen:

A volte soffrivo il fatto di non poter essere protagonista, ma entrai facilmente in quella macchina perfetta. Dovevo solo accettare il mio ruolo e combattere per loro come facevo per i Pistons.

Era proprio il numero 23 quello che lo capiva meglio di tutti: “è uno dei cestisti più intelligenti con cui abbia mai giocato”, dice Michael, “Dennis a volte aveva bisogno di staccare, e Phil (Jackson) lo assecondava sapendo che poi avrebbe dato anche un braccio per noi”. Proprio nella stagione dell’ultimo ballo, dell’ultimo anello, Rodman ha svolto un compito decisivo. Pippen voleva essere scambiato per le frizioni con il GM Jerry Krause, il coach del triangolo (schema di gioco di cui conoscerete origini e segreti) già sapeva che sarebbe stato licenziato alla fine dell’anno e Jordan, accerchiato dalla stampa in attesa di notizie sul suo futuro, si dichiarava legato al destino del suo mentore: “senza di lui, lascio i Bulls”. Lo avrebbe fatto a modo suo, ma questo lo vedremo nei prossimi episodi.

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